Back

Lunedì, 29 Agosto 2011

Il Lago D'Aral - Un disastro ambientale (Agosto 2011)

Fino agli anni ’60 in una vasta zona fra l’Uzbekistan del nord ed il Kazakistan sud-occidentale esisteva il quarto lago più grande della terra, il Lago d’Aral, vasto ben 68.000 km².

Oggi recandovi sul posto troverete solo un immenso deserto!

La sua estensione, infatti si è ridotta circa dell’80%, a causa della diminuzione della portata d’acqua dei suoi due immissari, il Syr Darya e l'Amu Darya, causata dall'assurda pianificazione del regime Sovietico che all’inizio degli anni '70 iniziò a prelevare dai due fiumi enormi quantitativi di acqua per irrigare le piantagioni di cotone create forzatamente nelle zone limitrofe.

Per tale motivo la modesta quantità di acqua rimanente nel corso dei due fiumi non è stata più sufficiente a colmare la notevole evaporazione naturale del lago, situato in una delle zone più aride del pianeta, causando così una progressiva desertificazione che ormai pare irreversibile nella sua drammaticità.

Oggi si distinguono un Piccolo Aral a nord ed un Grande Aral a sud, ormai completamente separati.

La comunità internazionale è impegnata a cercare di salvare ciò che resta del bacino lacustre. Dopo alcuni interventi di bonifica il Piccolo Aral nel 2005 è stato infatti completamente isolato dalla parte sud con la costruzione della diga Kokaral e nuovamente ricongiunto all'antico affluente Syr Darya. Nonostante il flusso d'acqua sia notevolmente ridotto rispetto al passato, in alcuni villaggi è ripresa l'attività della pesca e la salinità è tornata a livelli simili a quelli degli anni '60.

Il destino del Grande Aral sembra invece ormai segnato; nonostante gli sforzi del governo Uzbeko e della comunità internazionale, questo lago è destinato a scomparire definitivamente entro un decennio.

A questa situazione già di per se gravissima, si aggiunge un aspetto ancor più grottesco: l’isola di Vozroždenie, una volta al centro del lago e distante parecchi chilometri dalla terra ferma, era la sede di un laboratorio dell’ex Unione Sovietica per la costruzione di armi chimiche e batteriologiche di distruzione di massa.

Sebbene Uzbekistan e Kazakistan, coadiuvati da organizzazioni americane, abbiano provveduto nel 2002 ad una bonifica degli ex-laboratori, non si esclude che tracce di antrace ed altre sostante altamente tossiche siano ancora presenti sull'isola.

A causa della progressiva desertificazione del lago, l'isola di Vozroždenie sta ormai per ricongiungersi alla terraferma. Ciò comporterà un serio rischio per la popolazione non potendosi escludere che agenti patogeni ivi ancora presenti possano propagarsi con il vento o attraverso piccoli animali, contaminando le zone limitrofe.

In sostanza posso dire di aver visto nell’estate del 2011 uno dei più grandi disastri ambientali della storia causati dalla mano dell’uomo: una mano incurante e sprovveduta, una mano che andava fermata prima e che oggi purtroppo non risponde ad alcun Tribunale.

Basta chiedere ai pochi abitanti rimasti a Moynaq, un tempo fiorente porto peschereccio, oggi ridotto a città fantasma in pieno deserto. 

Prima di tutto ciò, infatti, il lago era noto per le sue acque cristalline, fondali non molto profondi ma ricchi di pesce ed una fiorente attività umana ed economica legata naturalmente all’industria della pesca.

Oggi i vecchi pescherecci arrugginiti sono arenati sulla sabbia, esattamente dove un tempo navigavano, in quello che le agenzie turistiche ormai chiamano “the ship’s cemetery”, lo spettrale cimitero delle navi.

Come se non bastasse il cambiamento climatico causato dal fenomeno della desertificazione costringe i pochi abitanti di Moynaq a convivere con continue tempeste di sabbia.

La salinità delle acque era tale che il terreno dell’attuale deserto è costituito da sabbie salate; violente tempeste di vento trascinano questa sabbia per centinaia di chilometri, fino alle pendici dei massicci montuosi del Pamir, dell'Hindukush e addirittura dell'Himalaya.

Inoltre, l'uso accentuato nei decenni passati di diserbanti e pesticidi per far posto alle piantagioni di cotone ha reso queste sabbie salate estremamente inquinate e tossiche per le popolazioni.

Ancora una volta la fotografia si rende testimone di fatti e situazioni forse poco noti o, addirittura, sottovalutate dal cosiddetto mondo “occidentale”, alla frenetica rincorsa di un benessere ormai insostenibile.

Conviene, forse, voltarsi indietro per un attimo e constatare, con grande tristezza, che l’uomo è l’unico animale sulla terra che distrugge il proprio habitat.

Antonello Serrao

 

 

 

 

 

Lunedì, 29 Agosto 2011

 

Contattami